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Death stranding: un viaggio di sacrificio e connessione

Un altro approfondimento su Death Stranding dopo poco tempo? Assolutamente sì! Da quando è stato lanciato, non ho mai smesso di esplorare l’ultima creazione di Hideo Kojima. Preferisco definire questa esperienza come un’opera d’arte piuttosto che un semplice videogioco, e sono consapevole che questa affermazione potrebbe infastidire qualcuno. Tuttavia, quando un’opera riesce a toccare profondamente le emozioni e a superare i confini tradizionali, non posso fare a meno di mostrare la mia reazione, quella pelle d’oca che testimonia l’impatto che ha avuto su di me.

C’è un elemento personale che rende questa esperienza ancora più intensa: Death Stranding è uscito pochi mesi dopo la scomparsa di mio padre. In quel periodo, mi sono trovato a navigare in un buio profondo, proprio come Sam, il protagonista del gioco, che avanza lentamente e con fatica, portando pesi enormi sulle spalle. La sopravvivenza ci insegna che questi sacrifici sono necessari, con la speranza che, superata la collina, ci potremo concedere un momento di pausa, magari per osservare il panorama da una nuova prospettiva.

Il sacrificio di Sam

Death Stranding, in effetti, riesce a rendere giustizia al significato del sacrificio. Dopo l’uscita del gioco, avevo già accennato a come il multiplayer asincrono mi avesse inaspettatamente assistito in una missione difficile. Vorrei riprendere questo concetto, andando oltre le meccaniche di arricchimento, e concentrandomi sull’idea centrale: un uomo che cammina in un mondo post-apocalittico, simile alle desolate wasteland di Mad Max, impegnato in un sacrificio fisico per connettere gli ultimi avamposti di vita. Sam svolge compiti apparentemente semplici: ha un lavoro, un obiettivo preciso, spostarsi da A a B, evitando pericoli e salvaguardando il suo carico, che è il cuore della sua missione.

Sam è un mulo sacrificale: può morire e tornare in vita, ma il suo carico rimane fondamentale. Così, ci troviamo a spogliarci di tutto, abbandonando attrezzature e vestiti, per riposarci nel nostro sepolcro e ripartire solo quando siamo pronti.

Un dovere che diventa relax

In questo compito dal sapore quasi messianico, il senso del dovere trasforma il sacrificio in un momento di relax. Non voglio entrare nei dettagli su come Death Stranding abbia alleviato il peso della mia perdita, ma posso dire che ho trovato un rito e un ritmo personale in gesti semplici. Durante le fasi avanzate del gioco, nonostante avessi a disposizione potenziamenti e aiuti, spesso sceglievo di spogliare Sam di tutto per affrontare le consegne come se fossero passeggiate. Nessun supporto, nessuna arma, solo un mondo desolato, un obiettivo e una lunga distanza da percorrere, con il sudore che si attacca alla pelle e i piedi doloranti. Un sacrificio, certo, dato che le consegne diventano più complesse senza aiuti, ma che mi riporta in sintonia con l’ambiente che mi circonda.

La preparazione delle missioni riflette i nostri impegni quotidiani, e in ogni angolazione, Death Stranding offre parabole uniche.

Un messaggio profondo e personale

Credo fermamente che queste emozioni siano collegate a una ricerca profonda, a sentimenti che emergono dalle piccole azioni quotidiane. C’è qualcosa di romantico nel sacrificio, che si tratti delle spalle di un eroe come Batman o di una persona comune. Sam rappresenta una via di mezzo, e tutto ciò che circonda il gioco amplifica questo senso che permea l’intera opera. Death Stranding è un gioco straordinario, anzi, generazionale, e la sua capacità di parlare a ognuno di noi è semplicemente magnifica. Riesce a ispirare riflessioni e punti di vista applicabili sia nel gioco che nella vita reale.

Il timore per il futuro

Tenendo conto di tutto ciò, c’è una certa apprensione per il secondo capitolo. Ho timore che queste sensazioni possano svanire. Ma, mai come ora, l’intimità di Death Stranding può ritrovarsi dentro ognuno di noi. Ogni volta che prendo il controller e inizio una nuova consegna, quel senso di sacrificio e dovere torna a riempirmi, paradossalmente riconnettendomi al mondo. Come nei migliori momenti di Destiny, alla fine di ogni azione c’è sempre una ricompensa che ti attende, spesso riflessa nei volti di chi ci circonda. Non tanto nelle mani, perché il dolore della perdita, sebbene sempre presente, si attenua col tempo. Inspiro profondamente, riempiendo i polmoni di aria fresca, consapevole di essere ancora qui, pronto a riprendere il mio cammino.